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CUPERLO E L’ETERNO RITORNO DELLA ‘DITTA’

La vicenda di questi ultimi mesi ci ha consegnato un Partito democratico bloccato in mezzo al guado. Non sufficientemente liberale da osare riforme alla Blair o alla Schreder. Ma nemmeno legittimato a rilanciare una classica iniziativa di stampo socialdemocratico, specie nel quadro di una politica europea impostata sul rigore.

Il documento di Gianni Cuperlo vive in parte di questa contraddizione. Ben costruito su un impianto solido, eredita e approfondisce la linea già abbozzata nel documento per le primarie 2012 di Pierluigi Bersani: l’idea che la sinistra debba tornare a fare la sinistra dopo l’ondata “neoliberista” (non importa quanto reale) che ha travolto il mondo occidentale unita all’orgoglio per la riproposizione di un partito solido contro le sirene della liquidità postmoderna.

Non a caso, le parole chiave più ricorrenti che emergono dalla cloud del programma di Cuperlo si dispongono su tre assi.

In primo luogo, l’asse crisi - lavoro – sociale. Il punto di partenza è la retorica della “crisi”: la crisi più importante della storia repubblicana, una crisi che scatenato l’aumento delle diseguaglianze, ha riaperto la questione meridionale, si è scaricata sulle persone più deboli e sta formando una generazione fantasma. Questa crisi impone coraggio e radicalità e rilancia l’urgenza di un nuovo patto sociale.

Grande rilievo è dato dunque alla dimensione “sociale” nel senso di un rilancio delle politiche sociali per bilanciare la deriva delle politiche di rigore. Il programma di Cuperlo sceglie così una tradizionale impostazione laburista. Al centro di tutto c’è il lavoro. “Dentro questa priorità – si legge nel documento - l’urgenza è il contrasto alla disoccupazione. Occorre un piano straordinario per l’occupazione giovanile e femminile finanziato in modo consistente, concentrando le risorse che nei prossimi anni si recupereranno dalla riduzione della spesa degli interessi sul debito pubblico, dal contrasto all’evasione fiscale e dai maggiori margini d’azione”. Insomma, nulla di nuovo sotto il sole se non la riproposizione di politiche di spesa pubblica per la creazione di nuovi posti di lavoro. Qualcosa che conferma l’idea di una leadership grigia e ripetitiva, del tutto priva di qualche brillante idea per invertire la rotta.

C’è, poi, l’asse Europa – Italia – Paese. Si tratta di un punto molto rilevante, anche dal punto di vista identitario, oltre che propriamente politico. In un momento in cui crescono i populismi anti-europeisti nei paesi membri e, anche in Italia, il M5S raccoglie uno scetticismo diffuso nei confronti della prospettiva comunitaria, il documento di Cuperlo si attesta su una linea schiettamente europeistica. Ma esprime malessere nei confronti delle politiche di austerità: “Vogliamo un’Italia più europea e un’Europa diversa. Diciamolo con chiarezza: siamo europeisti per cambiare a fondo questa Europa. Vogliamo un’Europa che abbandoni la linea dell’austerità e del metodo intergovernativo. Un’Europa che si doti di un vero governo economico e democratico dell’euro, imperniato sulle istituzioni dell’Unione e fondato sul metodo comunitario, capace di promuovere la crescita, l’occupazione e la coesione sociale”. Ritorna, dunque, quell’impostazione laburista che oggi costituisce il discrimine tra la sinistra socialdemocratica e quella liberale.

L’ultimo asse si sviluppa sulle parole PD – Politica – Partito. Riemerge qui un’evidente continuità con la tradizione novecentesca della forma partito. Anche quando nel documento si fa riferimento al contributo aggiornato di un amministratore ed intellettuale di grande qualità come Fabrizio Barca, è per rivendicare con orgoglio quella storia. La stessa distinzione tra guida del partito e leadership di governo - quasi un tentativo di protezione del partito dall’impatto che potrebbero avere le primarie o le pratiche di governo - sembra mettere fuori gioco l’idea di un partito moderno innestato nella logica maggioritaria delle democrazie europee.

In conclusione, Il programma di Cuperlo alimenta la fame di identità (si potrebbe dire di “diversità” storica) propria di settori maggioritari del partito; rinsalda il catalogo di diritti e di valori che caratterizzano l’essere democratici; ripropone il tipico welfarismo statale, cercando di ammorbidire la logica del “tassa e spendi” con una timida concessione alla riqualificazione della spesa pubblica.

Qualcosa che certamente rassicurerà la base, ma difficilmente potrà fronteggiare nuove sfide ed attirare nuove energie.

Vittorino Ferla

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